Massimo Bubola è uno che non cambierà mai. O lo si lascia, o lo si prende così com’è. Artigiano di tante (ottime) canzoni le cui risorse sono e saranno sempre state le stesse; amante della letteratura e di quelle storie che riescono a mostrare l’inevitabilità della vita e soprattutto della morte; cantante non superlativo (la voce č quella che č) ma interprete dai toni caldi e sempre partecipi, Bubola č riuscito a trarre dalla sua “monoliticità” più vantaggi che debolezze (inutile riepilogare per l’ennesima volta il computo di collaborazioni famose e capolavori donati a questo o quell’altro artista in trent’anni di carriera).
“Quel lungo treno”, tanto per dire, non sposta di un millimetro la rotta su cui il cantautore veneto ha basato la propria musica fino ad oggi: quel folk-rock di matrice americana, ma anche irlandese, fatto sempre più suo con il trascorrere degli anni, che qui – chitarre, violini, hammond e tin whistle alla mano, insieme alla solita onestà intellettuale ma anche, e in particolar modo, umana – č l’ingrediente principale di un viaggio dentro le storie e le persone che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale, periodo che Bubola ha vissuto indirettamente dai racconti e dai canti del padre, del nonno e dei prozii (a cui il disco č dedicato).
Sono proprio quei canti, alcuni in dialetto veneto, ad occupare cinque delle undici tracce dell’album (Era una notte che pioveva, Il Disertore, Monte Canino, Ponte de Priula, Adio Ronco), recuperati dalla semiclandestinità che colpisce molte delle testimonianze artistiche riguardanti il primo conflitto e rivestiti degli stessi suoni appartenenti alle altre canzoni autografe. Il risultato è un lavoro sicuramente sentito – a tratti commosso nel rimostrare l’assurda sofferenza della guerra – che non risparmia squarci epigrafici privi di retorica (Jack O’Leary), preghiere per la salvezza di chi quotidianamente combatte (Nostra Signora Fortuna) e macabre sortite dall’incontrovertibile tragicitŕ (la shakesperiana Bum Bum, unico leggerissimo cambio di registro in odore di Nick Cave).
La scrittura di Bubola si mantiene sempre su livelli più che buoni pur non eguagliando il pathos dei brani tradizionali, riproposti in versioni soddisfacenti e ben calibrate (ad esclusione di Ponte de Priula, che avrebbe richiesto forse un arrangiamento più spoglio). Inizialmente farà un certo effetto ascoltare un brano celebre come Era una notte che pioveva trotterellare tra dobro e violino, quasi trasformato in un classico country. E’ vero che le radici sono profondamente diverse, ma l’istanza emozionale che muove sia i brani tradizionali che quelli autografi č comune, e amalgama il tutto. Non č un caso, infatti, che alla fine il pezzo maggiormente rappresentativo di “Quel lungo treno” sia Noi veniam dalle pianure, scritto da Bubola (con una certa “tradizionalità” di fondo nella stesura dei versi) ma perfetto per sigillare come se fosse vivo ancora oggi il disastro di una guerra che rischia di scomparire dalla nostra memoria:
«Noi veniam dalle pianure su pei monti a guerreggiar
per le nebbie mai sicure che non son quelle di città,
qua su in alto il ferro è rosso e la pietra è bianca e dura
che per noi della pianura fa solo chiesa e funeral».