Recensioni

London’s Burning again…

E’ oramai chiaro come Daman Albarn abbia rinunciato al ruolo di front man di una band di largo successo come i suoi Blur, messi sotto formalina dopo l’unico album post-Coxon (Think Tank), per dedicarsi a esplorare sempre più approfonditamente generi e mondi musicali che sono molto lontani dal brit pop che gli ha dato gloria imperitura.

Già il ricordato ultimo album dei Blur lo vedeva più curatore di un progetto artistico complesso, che musicista in senso stretto, attento a far combaciare i contributi di tutti gli altri membri della band in un puzzle musicale molto più complesso degli storici Leisure o Parklife. Attitudine al nascondimento che è andata via via acuendosi con il progetto cartoonesco dei Gorillaz e che trova il suo acme in questo progetto, The Good, The Bad And The Queen, composto e suonato da una super band priva di un nome. Super band, dicevamo, perché ad accompagnare Albarn, troviamo Paul Simonon (Clash) al basso, Simon Tong (Verve) alla chitarra e Tony Allen, alle pelli e già collaboratore di Fela Kuti.

Fin dalla copertina – un’illustrazione del Grande Incendio che nel 1666 distrusse gran parte del centro della capitale britannica – è chiaro che questo è un disco londinese. Una serie di “cartoline da Londra”, suggerisce il New Musical Express. Vero, ma bisogna aggiustare il tiro su alcuni quartieri della città, in particolare sull’area attorno a Notting Hill e Portobello Road, dove vivono sia Albarn che Simonon e che ancora oggi è un crocevia di culture con pochi eguali nella nostra Europa: tutta la britishness che si amalgama con la cultura giamaicana, con l’India e il Pakistan. Ma anche con quell’Africa già esplorata da Albarn in Mali Music, uscito nel 2002 proprio per un’etichetta di Notting Hill, la Honest Jon’s, e qui riproposta soffusa anche grazie a Tony Allen. Una (zona di) Londra, quindi, che si fa specchio di questo nostro periodo storico, fatto di apporti culturali multietnici e di una musica pop alta sempre più world music, se il termine oramai non avesse acquisito sfumature sinistramente commerciali.

E’ un disco stratificato, The Good The Bad And The Queen, che prende fatti di cronaca (la balena che va a morire nel Tamigi) per trasformarli in una lovesong struggente e universale (Northern Whale), incubi alienanti che diventano jingle jangle micidiali (Kingdom of Doom), riflessioni sull’inutilità della guerra per una torch song punteggiata di violini e “mi si conceda” di Wind Of Change (A Soldier’s Tale). Un prendere a prestito da tanti generi musicali (pop, dub, raggae, folk, cantautorato colto, psichedelia) per cogliere lo zeitgeist di una Londra blurred, fuori fuoco come l’Occidente. Un disco di oggi, come sottolinea Riccardo Bertoncelli, che forse non avrà più senso tra dieci anni se non come documento storico di quale siano la musica e il mondo di adesso, e che per questo gode della luce preziosa che solo l’urgenza sa regalare agli album.