Capita che ci siano dischi più belli da attendere che da ascoltare. Succede ad esempio quando i nomi coinvolti sono quelli che avremmo sempre desiderato veder lavorare insieme. E magari le notizie, prima sottobanco poi sopra, fanno intuire qualcosa ma non tutto. Allora lo spazio è tutto per i chissà come sarà, chissà che pezzi faranno, chissà quanto sarà bello. Per il sogno, in una parola.
Poi è la solita storia dello scontro tra l’attesa e la realizzazione di essa, tra il desiderio e la verità, tra, appunto, il sogno, che ad un certo punto si tuffa nella vita annullandosi del tutto o quasi, e la vita stessa. Una lunga storia, che si ripete spesso. E quel che rimane qualche volta, dopo l’attesa, dopo il desiderio, dopo il sogno, è la delusione, o quasi.
Lasciate perdere i primi incontri, le storie d’amore e tutte quelle cose. Restate qui sul disco che gli Avion Travel hanno fatto insieme a Paolo Conte. L’Avvocato ha supervisionato il lavoro che il trio casertano ha fatto sulle sue canzoni. Loro, ormai “Piccolissima” Orchestra dopo l’uscita di Spinetti, Tronco e D’Argenzio, le hanno appunto reinterpretate: alcune piuttosto famose ma non troppo, altre meno.
“Danson Metropoli” inizia alla grande. Proprio come un sogno. La title-track č pane per i denti di un Servillo che lavora da attore un testo tradotto quasi in gramelot partenopeo, tra chitarre, bouzouki e un finale di trombe un po’ balcaniche e un po’ mariachi. Cosa sai di me spende languori dall’anima blues-crepuscolare sotto un manto intrecciato di hammond e farfisa mentre la voce dialoga con un’acustica dalla misura profonda, lasciandole poi tutta la scena, malinconicamente. Aguaplano, tutta aria e geografia, ingrana ritmiche iper moderne e aperture ambientali, quasi come l’avrebbero fatta i La Crus di “Crocevia” ma senza perdere per strada un grammo del peso specifico originale.
Poi qualcosa, come si dice in questi casi, si spezza. In realtà s’incrina solamente, e di poco. Ma prima, l’abbiamo detto, c’è stata l’attesa, il desiderio, il sogno. E allora il resto di “Danson Metropoli” pur difendendosi benissimo dalle asperità del repertorio contino e tenendosene a quella tal distanza che non offende né gli omaggianti né l’omaggiato, scoraggia un po’. Nessun pezzo brutto – solo uno veramente inutile: il rifacimento solo strumentale di Max come l’avrebbe fatta Morricone – ma un filamento di leggerissima delusione che li attraversa tutti.
Elisir ripresa in abiti pop-rock tirati fin troppo a lucido con una Nannini che fa la Nannini e lo stesso Conte a raschiare in pochi versi tutto il catrame dall’ugola – mentre Servillo gli gioca accanto di mimesi. Il giudizio di Paride e Spassiunatamente intrise di napoletanità tanto raffinata e verace quanto didascalica – la prima come ennesima scenetta in cui giganteggia il solito interprete, la seconda come ambientazione da rione tutta marcette, fischi, voci di popolo e il canto portuale di Mimè Ciaramella a svettare. Sijmadicandhapajiee che inizia lenta e intimista e poi accelera perdendo parte dello spirito originario su piatte architetture corali e qualche schitarrata di troppo (l’immancabile wha-wha distorto di Mesolella e ancora Morricone). Infine Languida, puntualmente aviontraveliana (chitarra, contrabbasso, spazzole: tutto leggero, con una voce che dice e non dice), che in coda si dilunga un po’ troppo su un ouverture orchestrale con risposte di chitarra. Tutto ben fatto, più che gradevole, a tratti entusiasmante, ma anche puntato di amarezza.
Perfezionismo? Certamente. Ma, a parte la caratura dei nomi in ballo, stiamo pur sempre parlando di attese, desideri, sogni. E i sogni vogliono la perfezione, l’assoluto. Spesso, come in questo caso, rimangono tali. Perché la perfezione è difficilissima, perché un detto afferma addirittura che la perfezione non esiste – davvero non avete a casa un disco che ritenete perfetto? Un sogno prima sognato e poi realizzato? Hai voglia però a non averli amati mentre li si sognava, i sogni. Lasciano un po’ d’affetto anche per dopo, anche per la realtà, anche per questo disco. Bello da ascoltare sì, ma imperfetto. E quindi ancor più bello da attendere.